Arriva per l’Attesa il momento di discutere di se stessa, anzi meglio, di dialogare sui suoi obiettivi e sulle sue motivazioni, oltre che sull’esito del progetto, ed al PAN nella conferenza stampa del 18 giugno convergono perciò quasi tutti gli autori dei dieci testi su cui sono state sceneggiate le performance all’insaputa degli spettatori occasionali: insieme a Mario Fortunato, curatore del progetto, ci sono Dacia Maraini, Ivan Cotroneo, Paolo Di Paolo, Elisabetta Rasy, Maria Pace Ottieri, Sandra Petrignani, Pulsatilla, i registi delle performance Sara Sole, Giorgia Palombi, Daniele Russo, Nicola Laieta, Anna Gesualdi, e gli attori delle compagnie coinvolte.
L’affresco che ne viene fuori parte naturalmente dalla fama di vocazione di città eminentemente teatrale di cui Napoli si fregia un po’ ovunque, sottolineata da una citazione di Walter Benjamin secondo cui “a Napoli ogni balcone o finestra è al contempo un palcoscenico ed un loggione”, ma l’occasione dell’incontro va ben oltre una celebrazione concettuale già iper-utilizzata, e si incentra soprattutto su due temi: il rapporto fra gli scrittori italiani ed il teatro, e quello fra la parola parlata e la parola scritta, oltre alle sue conseguenze sugli adattamenti dei testi alla loro possibilità di essere messi in scena.
Un aspetto importante del progetto dell’Attesa è stato quello di aver scelto dieci autori, diversissimi fra loro per tanti aspetti, cui affidare una vera e propria committenza. Usiamo questa parola proprio perché sa un po’ di antico, e nel suo essere desueto forse si incentra anche il nucleo del discorso: gli scrittori italiani non sono affatto abituati a scrivere per il teatro, come emerge chiaramente dal dibattito, e l’ipotesi che viene fuori, molto più semplice di quelle che si potrebbero immaginare in ardite dispute di tecnica della scrittura, è che non lo fanno perché nessuno glielo chiede.
È un dato confermato da tutti i presenti, sul quale sicuramente riflettere, sia per aver constatato l’entusiasmo dei dieci autori nell’affrontare questo aspetto più o meno nuovo, sia perché, come ricorda Dacia Maraini, “nel teatro la parola parlata si deve incrociare con la parola scritta, ed è un’operazione specifica alla quale tuttavia non si è più abituati, perché invece si fa moltissimo teatro di traduzione, o alternativamente teatro che va molto oltre il testo. Ugo Chiti e Dario Fo dovettero ai tempi loro farsi la compagnia da soli, perché nessuno li metteva in scena. È chiaro che mancano progetti specifici.”
L’altro aspetto di grande rilevanza che ha messo in rilievo l’operazione, è stata senza dubbio la cosiddetta messa in scena, o meglio, come è stato definito in una sorta di accordo collettivo spontaneo, la messa in atto dei testi, la loro trasformazione in performance, con la necessaria reinterpretazione, rilettura ed adattamento.
Forse non tutti gli autori erano davvero consci di questo aspetto, che rappresentava in fondo l'obiettivo vero del progetto, e non immaginavano i modi in cui le compagnie lo avrebbero centrato, cosa peraltro accaduta, come abbiamo verificato in molte delle location scelte in giro per la città.
Come conferma Ilaria Ceci, responsabile organizzativa del Progetto giustamente soddisfatta, i passaggi fatti con le compagnie per raggiungere questo obiettivo di produzione “sono stati vari e complessi, e si è scelta la strada di un ampio margine di rielaborazione”, considerando perciò i testi come un piano di lavoro in fieri: “bisognava dare vita a quelle che non erano esattamente delle performance, ma neanche vere e proprie azioni, forse soprattutto scene, qualcosa al confine tra realtà e la finzione, ed in bilico tra la vita e il teatro”.
Una sfida, insomma, che implica un lavoro impossibile da effettuare a priori, e da ripensare necessariamente sul campo: come ha raccontato la stessa Maraini, ed è l'esempio più calzante per questo tipo di lavoro, il momento in cui ella stessa ha avvertito con più forza la possibilità di una stretta sintesi fra i due momenti ideali, è stato quello in cui le capitò di assistere al lavoro di Vincenzo Cerami su un palcoscenico di Parigi, mentre riscriveva in presa diretta il suo stesso testo durante il confronto, e perché no, nel pieno del combattimento con gli attori che ne tiravano fuori la loro reinterpretazione sulla scorta dell'esperienza di scena: ebbene, se non così partecipata, una sintesi resta inevitabilmente composta di tesi ed antitesi, ed il risultato è testimoniato dai numerosi, inconsapevoli spettatori/attori che hanno contribuito a conferirne il senso.